Neurofisiologia della visione retinica

Come già detto la visione inizia negli occhi, che sostanzialmente possiamo definire come fotocamere che trasmettono le immagini al cervello (Fig.1 a, Fig. 1b).

Fig. 1a: Disegno di sezione dell’occhio dell’uomo. L’area arancione rappresenta la retina che riveste la calotta posteriore del bulbo oculare (chiamata banalmente pellicola fotografica).
Fig. 1b: Le vie ottiche che trasportano lo stimolo luminoso dall’occhio all’area corticale posteriore del cervello deputata all’analisi dell’immagine.

Come vediamo nella Fig. 1a la calotta posteriore del nostro occhio (fotocamera) è rivestita da una membrana di colore arancione. Questa è la retina, composta da diversi strati di cellule (Fig. 2) che hanno il compito di raccogliere lo stimolo luminoso, elaborarlo ed inviarlo al cervello, che – attraverso successive analisi molto raffinate – lo trasforma in immagine.

Fig. 2. Schema illustrante una sezione della retina composta da diversi strati di cellule nervose che sono attraversa te dalla luce in arrivo da a sinistra sino ai fotorecettori a destra.

Come vediamo nella Fig. 3a-b, nella retina distinguiamo due aree:

  • l’area centrale (macula), che rappresenta la zona della retina più sensibile agli stimoli luminosi ha il compito di trasformare l’energia luminosa in stimoli elettrici. La presenza dei fotorecettori coni rende quest’area garante della massima acuità visiva e del senso cromatico. Grazie alla sua capacità di catturare i fotoni è, infatti, responsabile della visione a colori ad alta risoluzione e ci consente di riconoscere gli oggetti che ci circondano. Al centro della macula troviamo la fovea, in cui i fotorecettori coni risultano densamente impacchettati (con una densità di 160.000 coni/mm2) e con un collegamento diretto con le cellule bipolari e ganglionare sovrastante, in rapporto 1:1. Per tale motivo, la fovea costituisce la regione della macula dotata di massima capacità di risoluzione e di dettaglio (Fig. 3c), permettendoci infatti di risolvere e percepire i dettagli più fini;
  • l’area medio periferica, che rappresenta l’area dotata di una mera capacità di avvistamento (che non consente, quindi, la precisa individuazione e riconoscimento degli oggetti presenti nello spazio circostante. La bassa acuità visiva e la insensibilità al colore che caratterizzano tale area sono dovute alla presenza prevalente di fotorecettori bastoncelli, la cui densità è nettamente inferiore rispetto la regione maculare e con una comunicazione con le cellule ganglionari più approssimativa (Fig. 3c). Questo significa che centinaia di bastoncelli o addirittura migliaia di bastoncelli convergono su un’unica cellula ganglionare. Tale organizzazione fa sì che le informazioni rilevate da più fotorecettori bastoncelli vengano convogliate su un singolo assone che raggiungerà il cervello con conseguente perdita d’informazioni di dettaglio e rappresentazione di immagini grossolane.
Fig.3a. Retinografia del polo posteriore retinico con la regione maculare ed il nervo ottico.
Fig.3b. Schema grafico illustrante la sezione della macula con al centro la fovea.
Fig.3c. Diagramma che dimostra il rapporto tra la densità dei coni-bastoncelli e la regione retinica maculare. Il rettangolo verde mostra l’altissima densità di fotorecettori coni presenti nella fovea. Allontanandosi dalla fovea i fotorecettori coni (verdi) diminuiscono mentre aumentano i fotorecettori bastoncelli (viola).

In poche parole, possiamo dire che la nostra retina è divisa in un’area centrale che ci consente di avere una visione distinta, di leggere e individuare/differenziare i colori ed un’area medio periferica che invece è responsabile della visione laterale e del nostro orientamento negli spazi. Naturalmente queste due regioni non lavorano in modo indipendente ma collaborano continuamente per consentire il miglior risultato. Esistono altre cellule che rivestono un ruolo altrettanto importante. È vero che la retina possiede circa 120 milioni di fotorecettori (bastoncelli) e 6 milioni di fotorecettori (coni), ma le fibre ottiche che entrano nel nervo ottico sono solo circa un milione. È evidente quindi una sproporzione tra tutti i segnali provenienti dai singoli fotorecettori – che possiamo banalmente paragonare ai pixel del televisore – ed il numero di cellule gangliari che devono raggiungere le aree del cervello deputate all’analisi della visione (Fig. 1b). Per ovviare a questa differenza tra numero di fotorecettori che ricevono il segnale e le fibre ottiche che tramite il nervo ottico lo trasportano al cervello, entra in gioco un sistema ingegnoso di connessione verticale e orizzontale che è in grado di integrare le informazioni raccolte dai fotorecettori. Questa funzione è data dalle cellule bipolari, dalle cellule orizzontali (Fig.4) e da un meccanismo di connessione denominato “convergenza retinica”.

Fig.4. Disegno illustrante i fotorecettori coni e bastoncelli collegati alla cellula bipolare. In mezzo è presente lo strato di cellule che formano la cosiddetta via laterale (cellule orizzontali e cellule amacrine) deputate all’integrazione del messaggio visivo tra gruppi di fotorecettori.

Così un insieme di fotorecettori, attraverso la comunicazione con i neuroni bipolari, giunge a trasmettere informazioni ad un solo neurone gangliare. La convergenza si considera essere più o meno pronunciata a seconda della grandezza dell’insieme di coni e bastoncelli coinvolto; insieme che prende il nome di campo recettivo visivo della cellula gangliare Fig. 5.

Fig. 5. Convergenza delle informazioni sulle cellule gangliari. Schema illustrante il modello di organizzazione della retina che evidenzia come i coni abbiano un rapporto 1 a 1 con la cellula bipolare e la cellula ganglionare (in alto), mentre siano necessari un numero maggiore di bastoncelli per attivare le cellule ganglionari che poi entrano nel cervello per portare il segnale ai centri cerebrali della visione (in basso).
Fig. 6. Nel disegno si evidenzia uno schema di un campo recettivo. Le cellule centro-on rispondono con una scarica quando la luce è proiettata nel centro del campo recettivo, e con una inibizione quando la luce è proiettata alla periferia, seguita da attivazione, quando la luce viene spenta. Le cellule centro-off si comportano in maniera opposta: mostrano un’inibizione quando la luce è proiettata la centro del campo recettivo. La funzione è quella di rispondere ai diversi gradi di contrasto di luce presenti tra il centro e la periferia dello sguardo.

Questo campo recettivo è minimo (può anche ridursi ad un solo cono) nella fovea e nella macula (Fig. 5 in alto); Perciò tali aree retiniche sono caratterizzate da una elevata acuità visiva: meno fotorecettori sono coinvolti, più sarà specifica l’informazione che giunge alla cellula gangliare. La convergenza è invece massima nei bordi esterni della retina, dove una cellula gangliare può avere un campo recettivo formato anche da decine di fotorecettori (Fig. 5 in basso). Questo tipo di organizzazione è coerente alle necessità del sistema nervoso centrale. A livello delle aree corticali visive, infatti, le risorse computazionali sono dedicate agli stimoli su cui è riposta l’attenzione, o che comunque la richiamano, ed essa si sposta inevitabilmente col movimento oculare: gli stimoli significativi tendono nella pratica a trovarsi sempre al centro del campo visivo, dove la risoluzione è massima. Le regioni periferiche del campo visivo, semplicemente, non necessitano di dover garantire uguali prestazioni in termini di risoluzione.

Voi direte, ma tutto questa organizzazione a cosa serve? La risposta è semplice. Noi non dobbiamo solo leggere delle parole e dei numeri, ma dobbiamo muoverci nell’ambiente in condizioni d’illuminazione non sempre uguali e riconoscere le forme e gli oggetti che ci circondano.  Per fare questo abbiamo bisogno del riconoscimento del contrasto. La capacità di percepire la minima differenza di luminanza tra due oggetti o aree nello spazio è denominata “sensibilità al contrasto” ed è fondamentale per distinguere gli oggetti dallo sfondo. Il contrasto è necessario per stabilire dove finisce un oggetto e ne inizia un altro, permette il rilevamento di bordi. La zona compresa fra due bordi viene percepita come appartenente ad una superficie uniforme, lo spazio “vuoto” viene riempito. Una differenza di brillanza verrà percepita tra due figure identiche per forma e luminanza in relazione ad una differenza nello sfondo.

Quindi il processo che rileva lo stimolo luminoso non è opera di un solo recettore (neurone) ma della combinazione di più di questi; l’effetto “corale” della percezione (inibizione laterale) comporta una parziale inibizione del segnale, una distorsione cangiante che appare in movimento. Questo meccanismo nasce all’interno della retina dove le cellule dei fotorecettori e le cellule bipolari, che collegano i fotorecettori alle fibre che raggiungono il cervello, vengono in relazione con le cellule orizzontali, che organizzano e codificano i segnali ricevuti. In pratica, un nucleo di fotorecettori si alimenta in una cellula bipolare, mentre un anello circostante di fotorecettori stimolano le cellule orizzontali a inibire la risposta. (Fig. 6).

Occorre considerare che i campi recettivi retinali hanno una forma pressoché circolare; sono costituiti da una zona centrale e una periferica che circonda la prima. È proprio il contrasto tra l’attivazione (quindi, la luminosità) tra centro e periferia che funge da forte stimolo per le cellule gangliari, innescando una risposta eccitatoria (vale a dire una serie di potenziali d’azione) o inibitoria (senza alcun potenziale d’azione). Un vantaggio significativo di questa soluzione sta nel fatto che gli stimoli deboli possono essere più facilmente percepiti.

Esistono diversi modi con cui le cellule cerebrali addette all’elaborazione dell’immagine si influenzano a vicenda. Uno di questi è proprio l’inibizione laterale: le cellule più attive “spengono” la sensibilità di quelle vicine, rendendole meno attive. Il risultato è che il segnale di un lato del confine tra bianco e nero si amplifica, mentre diminuisce quello che si trova dall’altra parte, creando un contrasto maggiore di quello che esiste in realtà. Ciò permette di vedere le cose in modo più vivido. Tutto questo determina la sensibilità al contrasto che nella realtà è un aiuto che la natura ci ha procurato per distinguere piccole differenze di luminosità (ad es. nello scendere i gradini di una scala in forte penombra.

Riferimenti Bibliografici:

  1. Snowden, R, Thompson, P, Troscianko, T. Basic Vision: An introduction to visual perception. Oxford University Press, 2006.
  2. National Eye Institute, Retinal Neurophysiology Section. September 2020.

Occhiocapolavoro

Dott. Giuseppe Trabucchi  – Medico Chirurgo – Specialista in Clinica e Chirurgia Oftalmica

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