Alla scoperta di Michelangelo Buonarroti: non solo un grande scultore e pittore, ma anche un fine poeta.
In un “blog” dove si celebra la bellezza dell’occhio ed il suo rapporto con l’arte e la letteratura non può mancare questa stupenda poesia tratta dalle Rime di Michelangelo Buonarroti.
Veggio co’ be’ vostr’occhi un dolce lume
che co’ mie ciechi già veder non posso;
porto co’ vostri piedi un pondo addosso,
che de’ mie zoppi non è già costume.
Volo con le vostr’ale senza piume;
col vostro ingegno al ciel sempre son mosso;
dal vostro arbitrio son pallido e rosso,
freddo al sol, caldo alle più fredde brume.
Nel voler vostro è sol la voglia mia,
i miei pensier nel vostro cor si fanno,
nel vostro fiato son le mie parole.
Come luna da sé sol par ch’io sia,
ché gli occhi nostri in ciel veder non sanno
se non quel tanto che n’accende il sole.
Dalle Rime di Michelangelo Buonarroti (N° 89).
Michelangelo Buonarroti (1475-1564) è stato probabilmente il più grande scultore, pittore e architetto del Rinascimento (Fig.1). Meno note ai più sono i suoi componimenti letterari ed il suo amore per la poesia. Le sue Rime sono tra le opere letterarie più famose del Cinquecento e sono da considerarsi un vero e proprio diario dell’anima, spesso composte di fogli e appunti sparsi, non sempre scritte per essere pubblicate. L’autore compose i suoi primi versi sotto l’influenza delle letture di Dante e Petrarca. Tuttavia è nella maturità e ancor più nella vecchiaia dove si concentra la sua produzione poetica, tanto che solo nel 1564 Michelangelo fa riunire un certo numero di componimenti in vista di una pubblicazione mai realizzata almeno fino a quando egli fu in vita (Rime e lettere di Michelangelo Buonarroti. Antonio Corsaro e Giorgio Masi. Bompiani Editore. Milano 2016).
Più di trecento componimenti rendono vivi ancora oggi i suoi pensieri, i suoi disagi e le sue pene, l’infinita passione per la bellezza umana e per la forza dell’amore e dei sentimenti, in una continua lotta tra piacere e tormento profondamente soffocato dal limite del finito, volto alla ricerca di una spiritualità assoluta (Fig. 2).
Molti dei sonetti sono indirizzati alla sua amata Vittoria Colonna (Fig. 3). Vittoria e Michelangelo si conobbero a Roma intorno al 1536. Il loro fu un rapporto intenso anche se perlopiù epistolare. Un susseguirsi di confessioni intime atte alla ricerca della pace e del conforto da parte di Michelangelo e per Vittoria, un modo per appagare il suo bisogno di offrire amore ed assopire il vuoto lasciato dalla perdita del marito.
Il sonetto 89 che abbiamo appena letto è proprio uno di quelli che celebrano l’amore per Vittoria. Ma è la considerazione lucida dell’invecchiamento del proprio corpo e la possibilità di poter amare ancora che toccano il cuore. Michelangelo si rende conto come le proprie capacità fisiche siano venute meno. Sono proprio i versi iniziali che ci mostrano questo aspetto: “Veggio co’ be’ vostr’occhi un dolce lume che co’ mie ciechi già veder non posso; porto co’ vostri piedi un pondo addosso, che de’ mie zoppi non è già costume”. La vista è divenuta confusa, le gambe non reggono più. La vita trascorsa nei cantieri lavorando senza sosta, il non essersi mai risparmiato, l’età molto avanzata rispetto gli uomini e le donne di quei tempi avevano già compromesso il suo fisico. Come dirà infatti Michelangelo riferendosi al ritratto che Daniele da Volterra gli fece “Lo sguardo malinconico e il volto segnato dal tempo erano proprio due caratteristiche che ben mi descrivevano e lui che mi conosceva così bene, non esitò a riportarle su carta” (Daniele da Volterra amico di Michelangelo. A cura di V. Romani, 2004, Mandragora, Firenze).
È evidente una condizione di fragilità che si abbandona però al dolce pensiero dell’amata. L’immaginazione conduce il poeta a farsi tutt’uno con il suo amore e a guardare, parlare, sentire come se fossero una persona sola.
Buonarroti fu conosciuto per il suo carattere burbero e scontroso ma al contempo tormentato e sofferente. Se vogliamo caratteristiche comuni in molti grandi personaggi della storia. Qui emerge il ritratto di un genio solo, che trovava rimedio ai suoi tormenti nello scrivere quasi in modo compulsivo. Improvvisi sfoghi di dolore ed amarezza colpiscono l’animo di chi legge in modo attento e coinvolto questi versi, in preda alla totale frammentarietà dei suoi componimenti aventi la forza di far trasparire la sua intima umanità.
Tutto questo traspare dalla poesia che abbiamo letto e ci regalano l’immagine di un uomo grande per le sue celebri opere e allo stesso tempo afflitto da pensieri, preoccupazione e slanci che fanno parte della vita anche di tutti noi…
Occhiocapolavoro
Dott. Giuseppe Trabucchi – Medico Chirurgo – Specialista in Clinica e Chirurgia Oftalmica
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Iscrizione Ordine dei Medici Chirurghi di Milano n. 25154