Femme fatale e "female gaze": il potere dello sguardo femminile nel cinema
Elegante, seducente e a tratti crudele, la femme fatale è una donna dalla bellezza sconvolgente capace di ammaliare e sedurre la sua “preda” semplicemente con uno sguardo. Un ruolo senza dubbi portato all’apice del successo dal mondo del cinema durante gli anni d’oro di Hollywood. Attrici bellissime e dal fascino irresistibile come Marlene Dietrich, Rita Hayworth e Marilyn Monroe (Fig. 1) si sono susseguite sul grande schermo interpretando questa parte misteriosa, spingendosi al di là di ogni concezione estetica.
In realtà il concetto di femme fatale comincia a svilupparsi già nella Francia di metà Ottocento. Tale espressione era usata per indicare una figura femminile caratterizzata da un corpo sottile, folti capelli e pelle levigata e luminosa, spesso agghindata con abiti, trucchi, profumi e gioielli studiati appositamente per sedurre ed affascinare i propri amanti. Un modello che si contrapponeva nettamente ai canoni dominanti dell’epoca, che rappresentavano la donna come angelo del focolare domestico.
Storia ed evoluzione della femme fatale
La femme fatale (letteralmente “donna fatale”) è un archetipo dell’arte, della letteratura e del cinema che nel corso del tempo è andato incontro a diverse interpretazioni. Già nella Eva biblica, che disobbedisce a Dio e porta il suo compagno Adamo verso la perdizione, compaiono alcuni tratti distintivi di una femme fatale ante litteram. Discorso analogo per figure mitologiche quali Circe e Medea ed alcune grandi donne della Storia come Cleopatra e Messalina.
È però nell’Ottocento che questa figura misteriosa si pone come protagonista delle letteratura europea. Dalla Marchesa de Merteuil in “Le ralazioni pericolose” di Pierre-Ambroise-François Choderlos de Laclos alla “Carmen” di Prosper Mérimée, dalla donna-vampiro descritta da Charles Baudelaire ed Elena Muti nel “Piacere” ed Ippolita Sanzio nel “Trionfo della morte” di Gabriele D’Annunzio.
“Chi era ella mai? Era uno spirito senza equilibrio in un corpo voluttuario. A similitudine di tutte le creature avide di piacere, ella aveva per fondamento del suo essere morale uno smisurato egoismo (…) Ella portava quindi, nella comedia umana, elementi pericolosissimi; ed era occasion di ruina e di disordine più che s’ella facesse publica professione d’impudicizia” (Gabriele D’Annunzio, Il Piacere).
Anche nell’arte non mancano simili richiami. Edward Munch per esempio delinea i tratti della donna demone, mentre Franz von Stuck e Gustave Moreau raffigurano Salomé (Fig. 2) con accanto la testa mozzata di Giovanni Battista, da cui l’idea della femme fatale decapitatrice, capace di far perdere la testa agli uomini non soltanto in senso letterale, ma anche metaforico.
Nel 1901 Gustave Klimt dipinge Giuditta I, simbolo della donna fatale in quanto forte, affascinante e libera. La femme fatale ha però acquisito un ruolo chiave soprattutto nel mondo cinemaografico, prima con il cinema muto e poi con il film noir americano classico.
La femme fatale nel cinema
Per le prime apparizioni della femme fatale in ambito cinematografico bisogna tornare indietro nel tempo alle vamp danesi degli anni Dieci Asta Nielsen e Else Frölich e alle dive di Hollywood Margarita Fischer e Alice Hollister. È però tra gli anni Trenta e la seconda metà degli anni Cinquanta che la femme fatale conquista un ruolo di primaria importanza sul grande schermo. Indimenticabile è l’interpretazione di Marlene Dietrich (Fig. 3) che nel film L’angelo azzurro (1930) veste i panni di Lola, una giovane ballerina di un locale notturno vestita con cappello a cilindro, tipico accessorio maschile, e calze a rete e giarrettiere, simboli indiscussi di femminilità.
Nel 1931 Greta Garbo (Fig. 4a), attrice dal fascino disarmante e dallo stile unico, recita nel film Mata Hari nel ruolo di spia-danzatrice, mentre Barbara Stanwick nel 1944 veste i panni di una donna avvenente, insoddisfatta del suo matrimonio che decide di pianificare l’assassinio del ricco marito nel film La fiamma del peccato.
Nel 1946 Rita Hayworth (Fig. 4b) interpreta Gilda che balla e canta con voce suadente, entrando per sempre nella Storia del Cinema grazie all’iconico abito di satin senza spalline disegnato dal costumista Jean Louis. Nello stesso anno gli occhioni dolci di Ava Gardner nascondono la natura demoniaca di Kitty il personaggio da lei interpretato nel film I gangster. La femme fatale per eccellenza rimane però per tutti Merilyn Monroe, che nel 1953 viene lanciata al successo con il film Niagara, in cui interpreta appunto il ruolo di una donna fatale che cerca di uccidere il marito. Maliziosa e seducente, Merilyn Monroe rimarrà per sempre impressa nell’immaginario collettivo per la sua bellezza e per il suo sguardo misterioso che nascondono una velata aria di tristezza mitigata dal suo contagioso sorriso.
Dalla femme fatale al “female gaze”
Le femmes fatale, in un modo o nell’altro, hanno sempre rappresentato un modello di donna forte, emancipata e rivoluzionaria. Esse, grazie alla loro bellezza, perspicacia e furbizia, sono riuscite a ritagliarsi un piccolo spazio all’interno della società maschilista. Tuttavia, molte studiose hanno sottolineato come questo personaggio riveli fondamentalmente la natura misogina e patriarcale che domina l’immaginario cinematografico della Hollywood classica. “Sebbene il film noir presenti spesso figure di donne indipendenti e determinate mosse da un forte desiderio, esse sono invariabilmente destinate, letteralmente o metaforicamente, a essere distrutte” (Elizabeth Cowie, Film Noir and Women).
Per oltre un secolo la rappresentazione artistica e cinematografica della donna è stata di fatto mediata dallo sguardo maschile (male gaze), colpevole di averla resa un mero oggetto del desiderio. A partire dagli anni Settanta, però, è andato consolidandosi un nuovo punto di vista, il cosiddetto “female gaze”. La donna non è più vista attraverso lo sguardo maschile, ma anche attraverso quello femminile e viene finalmente rappresentata sotto una nuova luce. La prima a sviluppare questa teoria è stata la critica cinematografica femminista Laura Mulvey, la quale nel saggio Visual Pleasure and Narrative Cinema (1975) ha spiegato come il cinema tradizionale abbia da sempre sfruttato la donna ed i suoi atteggiamenti. Il “female gaze” si pone dunque l’obiettivo di cambiare lo sguardo sul mondo, non solo dal punto di vista artistico, ma anche sociale e politico. La donna diventa finalmente artefice della sua realizzazione attraverso la sua intelligenza e le sue peculiarità, non più solo esteriori, che la rendono protagonista in una società che per secoli l’ha considerata spesso come un oggetto.
Già con la sola sua voce potrebbe spezzarti il cuore. Ma ha anche un corpo stupendo e il volto di una bellezza senza tempo.
(Ernest Hemingway)
Veronica Elia
Occhiocapolavoro
Dott. Giuseppe Trabucchi – Medico Chirurgo – Specialista in Clinica e Chirurgia Oftalmica
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Iscrizione Ordine dei Medici Chirurghi di Milano n. 25154