Un viaggio dentro lo specchio

Fig 1. Man in front of his mirror man in front of his mirror in shadow white background. IStock.

Specchio, specchio delle mie brame…”, una citazione che invoca ricordi infantili solo in apparenza, esprimendo piuttosto la tensione che la maggior parte degli esseri umani vive verso la visione del proprio corpo e di come la propria immagine venga percepita dagli altri.

Beati allora i nostri meravigliosi animali domestici: non si alzano dal letto al mattino, né si guardano allo specchio come facciamo noi; il loro tono dell’umore non dipende certo da riflessi che provengono da superfici lisce in cui ci osserviamo.

Per noi, invece, è più difficile. Un’intera giornata può essere influenzata dal grado di approvazione che proviene da quel delicato oggetto che è comunemente presente nelle nostre case (Fig. 1).

Quante volte capita di essere più allegri o più tristi a seconda di come ci vediamo o, meglio, percepiamo? La relazione, spesso conflittuale, con la nostra immagine ha radici “primitive” nel nostro percorso di vita.

  1. Le origini della nostra immagine corporea. L’autostima.

L’ immagine corporea si forma quando abbiamo circa un anno e mezzo; in quel momento capiamo che non siamo un’estensione della nostra mamma, ma un essere indipendente e distaccato da lei. Tuttavia, l’atteggiamento di colei che ci ha donato la vita gioca comunque, almeno in astratto, un ruolo fondamentale nello sviluppo del giudizio che destiniamo a noi stessi; in sostanza, il nostro stato di accettazione dipende, o quantomeno è condizionato, dalle sue azioni e attenzione. Crescere con la presenza di una “madre sufficientemente buona” come la definisce Winnicott, che nel corso della nostra crescita ci ha guardati negli occhi, allattato e abbracciato, facendoci sentire al sicuro, porta a sentirci accettati e riconosciuti come persone degne di essere amate.

Così prende avvio e si configura quella che definiamo “stima di sé”, un processo personale composto da vari fattori – sia intimi-privati, sia ambientali-sociali – come il nostro DNA, la famiglia a cui apparteniamo, il luogo dove siamo nati e quello in cui viviamo, le persone con cui ci relazioniamo, i nostri amici, gli insegnanti, i colleghi, etc.; in sostanza, da un punto di vista sistemico, secondo quanto sostenuto dalla scuola di Milano (tra  i cui esponenti più significativi possiamo citare Selvini, Palazzolo, Prata, Cecchin e Boscolo, con i loro studi sulla famiglia), l’autostima è fortemente condizionata dal contesto in cui viviamo, e in particolare se ci fa sentire accettati e riconosciuti.

In tale prospettiva, assumono un ruolo fondamentale le parole che ci vengono rivolte e, allo stesso tempo, il tono di voce con cui vengono pronunciate.

Vi sono casi in cui una sola frase, come “sei una palla di grasso” (per citare Maupassant), può generare in una persona un disagio così potente da determinare un significativo disturbo (come casi di bulimia o depressione). Per non parlare, poi, delle emozioni negative che possono derivare dalla competizione che spesso viene generata tra fratelli e sorelle a causa di frasi pronunciate da genitori o insegnanti, tali da suscitare nel soggetto più debole un complesso di inferiorità, che a volte si porterà con sé per un’intera esistenza.

Può però avvenire anche il contrario. Infatti, l’eccessiva ammirazione da parte di un sistema familiare, non riscontrata all’esterno di essa, può provocare depressione in un soggetto nel quale è stata potenziata la possibilità dell’insorgenza di un disturbo di personalità narcisistico.

È importante evidenziare come, in casi del genere, una frase detta con affetto (anche durante un percorso terapeutico) possa sensibilmente modificare il danno precedentemente prodotto; per questo motivo si parla di “terapia della parola” per definire la cura della psiche

Oltre alle parole, nel processo di sviluppo della nostra autostima, assumono rilievo anche i gesti di tutti coloro che, a qualsiasi titolo, entrano in contatto con noi, come gli sguardi, le posture assunte, la prossemica; in generale, possiamo dire che gli atteggiamenti delle persone con cui interagiamo ci inviano messaggi positivi o negativi, che andranno a influire sulla percezione personale della nostra immagine corporea, sul come ci presentiamo nel mondo, e perfino sul nostro umore.

  1. La percezione dell’io “specchiato”. I “neuroni specchio”.

Circa 20 anni fa, un gruppo di studiosi dell’Università di Parma, coordinati dal neuroscienziato e accademico italiano Giacomo Rizzolatti, ha fatto una scoperta significativa per il campo della psicologia, affermando l’esistenza nell’uomo dei c.d. neuroni specchio (Giacomo Rizzolatti,  Maddalena Fabbri-Destro and Luigi Cattaneo. Mirror neurons and their clinical relevance. Nature Clinical Practice, 5:24-34, 2009). Senza abbandonarsi a particolari tecnicismi, possiamo dire che con tale termine si definisce quella tipologia di neuroni che si attivano selettivamente quando osserviamo gli altri compiere un’azione (in particolare da conspecifici). I neuroni dell’osservatore “rispecchiano” quindi ciò che avviene nella mente del soggetto osservato, come se fosse l’osservatore medesimo a porre in essere l’azione (Fig. 2). In pratica, vediamo gli altri compiere azioni di cui comprendiamo la finalità, e capiamo ancora di più l’azione e la finalità se il gesto compiuto è specificamente attinente al soggetto, cioè se, ad esempio, da sportivi vedremo realizzare un gesto atletico.

Il rispecchiamento, però, non si ferma qui.

La portata rivoluzionaria della scoperta dei neuroni specchio la riscontriamo nella stretta correlazione tra tali neuroni e l’empatia/le emozioni. Per comprendere gli altri è necessario un modello interno. Tutto ciò dipende da uno specchiarsi che non è più in sé stessi, quindi con una tendenza narcisistica, ma negli altri.

Fig. 2. Pixabay
  1. Qualche riflessione conclusiva

L’idea dell’accettazione è così tanto ancorata nell’uomo da essere il fulcro di fiabe e racconti intramontabili, che a questo punto meritano di essere ricordati (anche come oracoli per affrontare le giornate negative).

Non si vede bene che col cuore”, è il segreto dell’amore (verso sé stessi e gli altri) che la volpe di Saint-Exupéry rivela al Piccolo Principe e che dovremmo tenere presente ogni volta che ci specchiamo e non vediamo ciò che vorremmo, quando cioè l’immagine riflessa non corrisponde al nostro sé corporeo ideale. Parimenti “profetica” è la storia di Narciso, il “belloccio” tutto preso dalla contemplazione di sé (Fig. 3).  Ricorderemo tutti la superbia di Narciso, il quale – tanto fiero della sua bellezza – dimostrava disprezzo o comunque disinteresse per ogni persona che si invaghiva di lui, dispensando una collezione di rifiuti, tra cui – secondo la versione romana della storia – quello nei confronti della bella ninfa Eco, la quale finì per trascorrere la propria vita in completa solitudine e con il cuore infranto. L’atteggiamento di Narciso fu tale da aizzare l’ira e il fastidio degli Dei, i quali con un artifizio decisero di punire il ragazzo facendolo innamorare della sua stessa immagine. Narciso, mentre era nel bosco, s’imbatté in una pozza profonda e si abbassò verso di essa per bere. Non appena vide la sua immagine riflessa, s’innamorò perdutamente del bel ragazzo che stava fissando. Solo dopo si accorse che l’immagine rispecchiata apparteneva a sé stesso e, comprendendo che non avrebbe mai potuto ottenere quell’amore, si lasciò morire tormentandosi inutilmente.

Fig. 3. Eco e Narciso|J.H. Waterhouse (Walter Art Gallery, Liverpool).

Con tale storia, il poeta ci insegna che il riflesso che vediamo in uno specchio può non essere vero, ma un raggiro o, per dirlo in termine psichiatrici, un’illusione, una pareidolia o, estremizzando, un’allucinazione; in sostanza, un tranello della mente che, suscitando vanità e orgoglio immotivati, ci fa peccare di ubris, vale a dire quella che per i Greci antichi, è la più grave delle colpe, capace di trascinare chi ne è soggetto verso una punizione divina implacabile, quello che appunto accade al giovane cacciatore. Quanto detto, seppure parte da una leggenda, è assolutamente riscontrabile nella nostra vita.  E’ infatti possibile che veniamo così tanto catturati dalla nostra immagine da trascurare tutto ciò che ci circonda, o, come nel disturbo di personalità narcisistico, diffusissimo nel mondo fatto di social e di like che viviamo, da considerare gli altri come meri oggetti, necessari alla conferma della nostra bellezza e di conseguenza del nostro attribuirci valore.

Fig. 4. Alice guarda oltre lo specchio. Pinterest.

Lo so che non siamo i protagonisti di una fiaba e che la realtà è ben più difficile da gestire, ma nulla ci impedisce di spalancare le porte dell’inconscio facendo un viaggio “dietro lo specchio” (Fig. 4) come Alice di Lewis Carroll, e precipitando nella tana del Bianconiglio, per comprendere chi siamo realmente e chi vogliamo diventare. Del resto, lo specchio è un occhio sul luminoso, un’epifania del sé, poiché nella sua apparenza illusoria rappresenta anche una rivelazione del vero, la ricerca interiore che crea un ponte tra il mondo reale e l’immaginario, ma al contempo una finestra sul passato e sul futuro, un oggetto magico presente nella nostra quotidianità che riunisce gli opposti, come il maschile e il femminile, il bello e il brutto, l’umano e il bestiale, e perfino il divino.

Testo a cura di Laura M.Lavagna (Medico Psicoterapeuta)

Occhiocapolavoro

Dott. Giuseppe Trabucchi  – Medico Chirurgo – Specialista in Clinica e Chirurgia Oftalmica

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Iscrizione Ordine dei Medici Chirurghi di Milano n. 25154