Diffusione di Raman
Chandrasekhara Venkata Raman nell’estate del 1921, durante un viaggio in Europa ebbe modo di osservare per la prima volta il “meraviglioso blu opalescente del Mar Mediterraneo”, e si chiese perché, analogamente al caso del colore del cielo, un liquido trasparente come l’acqua apparisse in realtà colorato. Tornato a Calcutta iniziò una serie di esperimenti sulla diffusione della luce nei liquidi, cercando di comprendere se alla base di questo fenomeno potessero esserci meccanismi più complessi della sola diffusione elastica. Detto fatto: nel 1928, insieme al collega K. S. Krishnan, Raman pubblicò un articolo sulla rivista Nature dal titolo Un nuovo tipo di radiazione secondaria, che gli sarebbe valso, due anni più tardi, l’assegnazione del premio Nobel per la fisica nel 1930. La scoperta prese il suo nome, effetto Raman, e rappresentò una vera e propria rivoluzione per la fisica della materia.
Ma in cosa consiste questa radiazione secondaria? La luce diffusa elasticamente costituisce più del novantanove percento della radiazione diffusa. Tuttavia, circa un milionesimo della luce diffusa dalla materia non ha la stessa energia che aveva prima di interagire. Un po’ come se i fotoni cambiassero colore. La conclusione a cui Raman e i suoi collaboratori giunsero è che alcuni fotoni possono scambiare energia con gli atomi che costituiscono la materia. Possono cederne un po’, oppure acquistarla, a seconda delle caratteristiche delle molecole con cui interagiscono. Oggi sappiamo che le molecole sono strutture tridimensionali complesse, costituite da atomi diversi legati fra loro da legami chimici. Possono ruotare, vibrare, avere una carica elettrica complessiva. Tutte queste caratteristiche si possono riassumere con il concetto dei livelli energetici di una molecola, che possono essere elettronici, vibrazionali o rotazionali. L’effetto Raman consiste nella diffusione della luce con energia maggiore o minore rispetto a quella iniziale, a seconda che la molecola ceda o riceva energia. Queste quantità di energia sono molto specifiche, e costituiscono una specie di firma del materiale che si vuole studiare. Le informazioni che si possono ottenere tramite l’effetto Raman sono numerose e precise. Ad esempio possiamo conoscere con precisione assoluta che tipo di atomi compongono un determinato cristallo, come si muovono l’uno rispetto all’altro, quali sono i legami chimici, quanto sono eccitate le sue molecole — essenziale per la misura di temperatura — oppure se con una variazione della temperatura causa un cambiamento del modo in cui le molecole sono disposte all’interno del materiale. Oggi gli spettrometri basati sull’effetto Raman sono strumenti essenziali per lo studio dei materiali, e vengono usati quotidianamente in tutto il mondo.
Lorenzo Tenuzzo. Chandrasekhara Venkata Raman e il colore del mare. STAR, Sapienza Università di Roma.
Occhiocapolavoro
Dott. Giuseppe Trabucchi – Medico Chirurgo – Specialista in Clinica e Chirurgia Oftalmica
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