La storia raccontata attraverso l’occhio del fotografo di guerra
Roger Fenton nel 1855 fu il primo a documentare la guerra attraverso la fotografia: da allora le fotografie hanno cambiato il modo di raccontare e vedere la storia (Foto 1). Gli occhi del fotografo di guerra immortalano un istante che non si ripeterà più come tale, ma che potrà riproporsi in futuro attraverso altre immagini e altre sofferenze. Il fotogiornalismo di guerra non si sofferma sui tecnicismi della fotografia ma produce foto che fanno riflettere, che informano e toccano un pubblico abbastanza vasto rispetto al tema della guerra. Non è un genere, non è una tecnica, non è neppure un vero e proprio mestiere, è piuttosto una condizione esistenziale come quella del soldato disarmato, che imbraccia un’arma che non ‘tira’ ma ‘prende’.
I fotogiornalisti di guerra rischiano la vita per strappare quell’immagine che nessuno possiede. Sono sempre più spesso giovani e giovanissimi freelance. Molti ci lasciano la pelle. Perché tutto è cambiato e tutto è sempre uguale, compresa l’ipocrisia della società civile. La stessa società civile che dopo aver ammirato e spesso premiato quell’attimo irripetibile stigmatizzerà la spettacolarizzazione e gli stessi politici che utilizzeranno la fotografia per fare propaganda. È quel “terribile amore per la guerra” da cui ci mette in guardia James Hillman, psicologo analista, americano di nascita ma europeo di cultura che ha partecipato alla seconda guerra mondiale nella sanità militare della US Navy. I fotografi di guerra più consapevoli capiscono quanto sia difficile, forse impossibile, produrre visioni della guerra che non siano per la guerra ma contro la guerra. Vedono il conflitto straziante e si pongono fra il dovere della testimonianza e il rischio della propaganda.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, la guerra per i fotografi in divisa (armed with cameras, il motto di Robert Capa), significava avvicinarsi all’azione, ma anche alla motivazione. La frase “siamo circondati e senza munizioni” è forse lo specchio dello sguardo del fotografo e del suo dubbio: cosa ci faccio io qui? a cosa servo? Il padre della fotografia umanista, Edward Steichen, ufficiale fotografo nel Pacifico, sosteneva che la guerra va mostrata per farla finire. Infatti, si è detto che furono le fotografie dal Vietnam a far finire la guerra, che fu la coscienza disgustata dell’America a cercare nelle fotografie del Vietnam le ragioni per alzare la voce contro la guerra (Foto 2). Ma le guerre non finivano mai: Vietnam, Cipro, Libano, Ulster, India, Balcani, Iran, Afghanistan e via di seguito fino ad oggi.
Dalla Prima Guerra Mondiale la fotografia di guerra, da mezzo di documentazione e ricognizione del territorio, diviene sempre più il riflesso della realtà della dura vita al fronte. La fotografia diventa supporto alle operazioni di ricognizione aerea, documentazione dei danni inferti al nemico e materia di propaganda. Nel 1924 Erns Friedrich pubblicò il libro “Guerra alla Guerra” (War against War). Le immagini raccontavano cos’era successo davvero durante il primo conflitto mondiale, denunciando gli orrori della guerra. Nel 1936 in America nasce Life Magazine, un settimanale illustrato per vedere il mondo… i fotografi che lavorano per Life riprendono il mondo che li circonda e prestano una particolare attenzione alle persone che lo abitano e alle loro attività. Molte foto restano impresse nella memoria e diventano veri classici (Foto 3). Per quale motivo? perché conservano la capacità di sorprendere, come disse il fondatore Henry Luce. I fotografi di Life testimoniavano gli eventi e lo facevano da vicino.
Sono le donne che lasciano il segno nel mondo della fotografia di guerra. In una lettera del 1944, Lee Miller, fotografa affermata dell’epoca, spiega ai genitori che ormai per lei non è più il tempo di lavorare per le riviste patinate: “Mi sembra piuttosto stupido continuare a lavorare per una rivista frivola come Vogue, che può essere buona per il morale del Paese, ma un inferno per il mio”. Lee trova un accredito stampa e, assieme all’amico e collega David E. Scherman di Life, parte al seguito dell’esercito americano in Europa. È forse proprio Scherman a ritrarla in divisa da ufficiale prima della partenza: alle spalle di Lee c’è un numero di Vogue con una patriottica bandiera americana e, sul cappello e sulla giacca, si legge la scritta war correspondent. La Miller è la prima donna a cui è permesso di stare così in prima linea: fotografa senza remore gli ospedali di guerra, la morte nei campi di concentramento o le devastazioni delle città tedesche bombardate durante la fase finale della seconda guerra (Foto 4).
Margaret Bourke-White riprese il bombardamento tedesco su Mosca del 1941, trascorse una notte su una scialuppa di salvataggio dopo l’evacuazione di una nave silurata nel mediterraneo, decollò dall’Africa del nord su un aereo da combattimento, seguì la guerra in Italia e poi in Germania e assistette alla liberazione di un campo di concentramento nel 1945 (Foto 5). I fotografi di Life rischiavano il tutto per tutto per raccontare la guerra. Robert Capa disse: “Se le tue foto non sono abbastanza buone è perché non sei abbastanza vicino” (Foto 6). A fine anni 30 nascono anche i picture book: libri nati da una stretta collaborazione fra il fotografo e lo scrittore in cui le fotografie sono unite alle informazioni. Questa associazione sembra accrescere il valore documentario. Presto affermeranno tutti che la didascalia è parte integrante della sua definizione, che un’immagine documentaria non è completa se non viene rinforzata da una didascalia. Durante la Seconda guerra Mondiale molti fotografi spedivano nelle retrovie i negativi, affidando ad altri lo sviluppo in modo da accelerare l’arrivo delle immagini alle agenzie e/o ai giornali.
Oggi il fotografo, in qualsiasi punto del globo si trovi, può collegare la sua macchina digitale a un telefono (cellulare o satellitare) e qualche istante dopo l’immagine è sullo schermo del computer dell’agenzia o del quotidiano per cui lavora (Foto 7). La progressiva riduzione delle difficoltà tecniche di ripresa e di trasmissione ha dato al fotografo-giornalista maggiori chance di cogliere la notizia nella sua immediatezza, per esprimerla in singole immagini o in un racconto per immagini. Documentare oggi per migliorare il domani è ancora il motto della maggior parte di loro.
Inoltre, come è successo con le foto dell’11 Settembre, tutti oggi abbiamo la possibilità di fotografare ciò che vediamo. Il momento immortalato dal fotogramma dice molte cose e, in quel che dice, è polisemico: si presta a molte letture. Per completarlo e per ridurne l’ambiguità, molto spesso un testo dirige il lettore sul messaggio inteso dall’emittente. Se la fotografia non dice, o non dice a tutti, il dove, il chi, il che cosa, il come, il quando, il perché, lo scopo di un determinato avvenimento, si aggiunge il testo. Quindi non bisogna contrapporre la parola scritta all’immagine sulla base della maggiore veridicità e comprensibilità dell’una rispetto all’altra. Allo stesso modo, non bisogna contrapporre la figura del giornalista a quella del fotogiornalista (o del giornalista che lavora alla radio, in televisione, in Internet).
In ogni caso, la fotografia di guerra si caratterizza per forza, vigore espressivo, incisività ed evocazione di sentimenti. Le fotografie scattate per i reportage di guerra, oltre a documentare la realtà, protestano aspramente contro quest’ultima e nel farlo intendono scuotere gli animi. Il risultato finale – la fotografia – è sotto gli occhi di tutti, ma non è possibile affermare che tutti la leggano nello stesso modo.
Ginevra Prelle,
Doctor in Global Politics and Society
Occhiocapolavoro
Dott. Giuseppe Trabucchi – Medico Chirurgo – Specialista in Clinica e Chirurgia Oftalmica
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Iscrizione Ordine dei Medici Chirurghi di Milano n. 25154